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Sono entrato, tempo fa, in un manicomio abbandonato.
Un luogo di reperti e sembianze.
In quel silenzio ho sentito convergere le domande ultime.
Gli sguardi dei ricoverati mi hanno interrogato, in bilico tra un abisso di inconosciuti dolori e un oltre infinito.
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Questi muri ammuffiti sono come un caleidoscopio in continua, lenta rotazione.
Appaiono e scompaiono immagini che sembrano ricordare ciò che è stato.
Aleggiano ovunque presenze impalpabili.
Ogni giorno un frammento va perso.
Su una parete qualcuno ha scritto: "il tempo porta via ogni cosa".
Più tempi scorrono a velocità diverse: quello del manicomio, quello dell'umanità e il mio.
A volte li percepisco intrecciati, nella loro interezza, in una dimensione dove migliaia di anni e una stagione sono destinati ad annullarsi, a chiudersi in un soffio di senso.
Negli sguardi ritrovati filtra una luce antica, brillata la prima volta che l'uomo si è interrogato sul suo dolore.
Una luce che percorre tutta la storia e che giunge fino a queste radiografie.